
C’è una tensione fondamentale nel cuore della società israeliana: la politica e la società civile sono divise tra l’urgenza di salvare i 59 ostaggi e la difesa dello Stato. Reportage su una battaglia politica, sociale e culturale
A oltre un anno e mezzo dall'inizio dell'offensiva israeliana nella Striscia di Gaza ci sono state oltre 50.000 vittime da parte palestinese, secondo le fonti locali. Anche al netto dei combattenti (circa 20.000) il bilancio in ascesa ha da tempo oscurato il fatto che il 7 ottobre 2023, data dell'innesco di questa guerra, ha segnato il più grave massacro contro la popolazione ebraica dall’Olocausto. Non in Israele. A un anno e mezzo di distanza dal “fallimento totale” delle forze di sicurezza, la società israeliana è profondamente cambiata, spiega un alto funzionario del ministero degli Esteri israeliano durante un incontro con la stampa internazionale a cui ha partecipato l’Adnkronos.
“Si è trattato di un fallimento personale, perché praticamente tutti noi facciamo parte dell’esercito. La nostra normalità si basa sul fatto che, pur vivendo in un’area molto ostile, siamo protetti”, racconta il funzionario. Una situazione infranta dal brutale attacco di Hamas contro i civili israeliani, fucilati, bruciati vivi, soffocati nella stanza di sicurezza, rapiti e violentati; “e noi non eravamo lì per proteggerli”. L'evento ha lasciato un segno profondo nella psiche del Paese mediorientale, che prima del 7 ottobre stava facendo progressi nel complicato processo di normalizzazione con i vicini regionali.
Insieme al trauma collettivo nel Paese si è affermata una consapevolezza: la minaccia posta da Hamas non è controllabile, la prospettiva di progressiva integrazione si è infranta, e finché esisterà una formazione jihadista del genere al suo confine, Israele non sarà al sicuro. Una convinzione che il premier Benjamin Netanyahu ha fatto sua indicando come obiettivo della guerra l’“annientamento totale” di Hamas. Scopo che, secondo una parte crescente della società civile, il governo non sta bilanciando con l’urgenza di trarre in salvo i cinquantanove ostaggi ancora detenuti nella Striscia di Gaza.
“Lo sforzo militare ha da tempo esaurito la sua legittimità strategica. Ora si tratta solo di volontà politica”, sostiene Dani Shek, diplomatico di lungo corso, oggi a capo della diplomazia del Forum delle famiglie degli ostaggi. Questa associazione della società civile è emersa dagli sforzi dei familiari delle vittime nei giorni successivi al sette ottobre, e oggi è in prima linea per portare avanti la loro causa. “Ci si chiede spesso se sia più importante sconfiggere Hamas o liberare gli ostaggi. Non so rispondere sul piano dell’importanza, ma è chiaro quale sia l’urgenza: si può combattere Hamas per altri sei mesi o un anno, ma non si possono lasciare le persone prigioniere a Gaza per tutto questo tempo”.
Il Forum è animato da centinaia di volontari, tra cui avvocati, medici, esperti di comunicazione e assistenti sociali. Offre supporto alle famiglie: servizi medici, assistenza psicologica, sostegno economico, perché “spesso i familiari degli ostaggi sono così concentrati sul tentativo di riportarli a casa che non riescono nemmeno a gestire le attività più semplici della vita quotidiana. Inizialmente le istituzioni erano sopraffatte, e siamo intervenuti noi”, racconta il diplomatico alla delegazione della stampa estera. “È meraviglioso vedere questa risposta collettiva, anche se resta il dubbio che non dovrebbe essere la società civile a farsi carico di tutto questo. Ma è così che stanno le cose, e continuerà a esserlo finché anche l’ultimo ostaggio non sarà liberato”.
Tra gli obiettivi del Forum c’è anche un lavoro assiduo per influenzare i decisori politici e l’opinione pubblica attraverso manifestazioni, presidi, attività di lobbying alla Knesset, il parlamento israeliano, e una presenza costante sui media tradizionali e social. Il risultato è visibile: i volti degli ostaggi sono affissi ovunque, lo slogan – “Riportateli a casa adesso!” – è richiamato su magliette, graffiti, manifesti, e stando a Shek il 65-75% dei cittadini ritiene che la liberazione degli ostaggi debba essere la priorità del governo. “Non si può concludere la guerra senza liberare gli ostaggi, e non si possono liberare gli ostaggi senza concludere la guerra. Il governo non vuole porre fine alla guerra. Ma la sua responsabilità è verso gli ostaggi, perché sono cittadini, e il governo li ha traditi”, riassume.
“Mio figlio Nimrod è vivo e si trova ancora a Gaza. Stiamo lottando per riportarlo a casa”, spiega Yehuda Cohen, secondo cui la situazione è “gravissima, ed è una crisi politica, causata dal nostro governo spregevole e criminale”. Per lui è evidente che l’obiettivo di Netanyahu fosse fin dall’inizio quello di scaricare la colpa per quanto accaduto il sette ottobre, distogliendo l’attenzione dalle sue responsabilità. “Prima ancora, per motivi politici, ha rafforzato Hamas per oltre 15 anni agevolando il trasferimento di denaro dal Qatar verso Gaza, che è stato poi utilizzato per costruire tunnel, acquistare munizioni, armi e lanciarazzi. E lo ha fatto ignorando tutti gli avvertimenti sui rischi imminenti”, accusa Cohen, richiamando l’inchiesta “Qatargate” che sta infiammando la politica israeliana.
Il padre dell’ostaggio ritiene che il premier abbia “sabotato ogni tentativo di accordo” pur di rimanere al potere, accettando una tregua solo dopo le pressioni dovute all’insediamento di Donald Trump negli Usa (peraltro seguendo il piano delineato da Joe Biden quasi un anno prima) per poi disattendere agli impegni presi e riavviare le operazioni militari sfruttando l’appoggio delle forze di estrema destra nel suo governo. “La soluzione è politica: serve andare avanti con la seconda fase dell’accordo, che prevede lo scambio di prigionieri e la liberazione degli ostaggi, incluso mio figlio, perché è l’unico modo per chiudere questo capitolo. Hamas potrà essere affrontata dopo; prima, dobbiamo salvare delle vite”.
Nella Knesset l’istanza del Forum è raccolta da politici all’opposizione come Shelly Tal Meron, membro del partito liberale e centrista Yesh Atid, e dalle forze alla sua sinistra. “Ogni giorno c'è un nuovo scandalo, ma nel mentre abbiamo 59 esseri umani che stanno aspettando di tornare a casa, e non si preoccupano certo del Qatargate”, evidenzia la parlamentare. “Ho servito il mio Paese nell'esercito per sette anni, sono stata capitano nell'aviazione, ho preso parte a molte operazioni, so come funziona. Non c'è alcun dubbio rispetto alla necessità di tenere i nostri confini al sicuro. Ma penso che gli ostaggi sarebbero dovuti essere la priorità numero uno dal giorno dopo, dall’otto ottobre 2023”. Oggi Israele sconta l'assenza di un piano strategico ben delineato, conclude.
Il governo, dal canto suo, non sembra aver dubbi sulla linea da seguire. "Vi offro due istantanee su cosa è e cosa può essere il Medio Oriente. Da una parte gli Accordi di Abramo, patti storici che non solo aiutano a porre fine al conflitto ma sviluppano una ‘pace calda’ basata sul commercio e sul rispetto reciproco. Sono presidente del gruppo parlamentare che li porta avanti, credo davvero in questa visione", spiega il parlamentare Dan Illouz, membro del partito conservatore Likud, cui appartiene Netanyahu. "L’altra istantanea è il sette ottobre: donne stuprate accanto ai cadaveri delle loro amiche uccise solo pochi minuti prima. Bambini bruciati vivi, anziani rapiti e portati a Gaza senza ricevere cure adeguate, anzi torturati".
"Penso che, per poter percorrere la strada degli Accordi di Abramo, sia essenziale che Israele vinca decisamente questa guerra", ha spiegato Illouz durante la conversazione con la stampa estera a cui prendeva parte anche la collega Tal Meron. Il conflitto passa dai "sette fronti" evocati da quest’ultima: Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen, forze jihadiste in Cisgiordania, Siria, Iraq e la potenza regionale che sostiene tutte queste propaggini, l’Iran. Se vista nell'ottica del contrasto al cosiddetto "Asse della Resistenza", il nome che Teheran dà alla campagna estremista per opporti all’influenza israeliana e occidentale nel Medio Oriente, l'offensiva israeliana è effettivamente riuscita nell’intento di ridimensionare la minaccia. Questo è il volto della vittoria, dicono con una certa amarezza nella destra israeliana: è ovvio che non sia piacevole, ma guardate contro cosa stiamo combattendo.
Esiste un fronte più orizzontale, ed è quello dell’ideologia. Impact-Se, organizzazione fondata dopo gli Accordi di Oslo del ’93 per promuovere la tolleranza nei sistemi educativi, tiene traccia dei materiali scolastici in uso nella Striscia di Gaza e di come contribuiscono alla radicalizzazione giovanile. Durante un incontro, l'Adnkronos ha avuto modo di osservare i frutti del loro lavoro e visionare una selezione di esempi, specie i più estremi, dei testi che ogni anno passano dalle mani e dalle menti dei bambini locali.
Nei libri di testo usati nelle scuole palestinesi, la liberazione “dal fiume al mare” (leggi: la distruzione dello Stato di Israele) è spesso presentata come l’obiettivo più alto dell’esistenza, da perseguire attraverso la jihad e il martirio. Non manca l’esaltazione della violenza: attentati suicidi e “il taglio della gola del nemico” sono rappresentati come atti eroici. In un esercizio di comprensione del testo, un personaggio descrive un autobus in fiamme pieno di passeggeri israeliani come hafla (“festa”). Ai più piccoli si insegna la H come in shahid (“martire”), si fanno esercizi di aritmetica contando gli “eroi” martirizzati, si studiano le leggi di Newton applicate all’uso della fionda contro gli ebrei.
Il quadro tracciato da Impact-Se è ancora più preoccupante se si considera che la stragrande maggioranza degli studenti di Gaza frequenta scuole gestite dall’Unrwa, organismo Onu con il mandato specifico di fornire assistenza umanitaria e istruzione ai rifugiati palestinesi. Ne consegue che la maggior parte dei partecipanti al massacro del sette ottobre abbia ricevuto la propria formazione in queste scuole, spiega il direttore operativo dell'ong, Arik Agassi. Questo non avviene negli altri Paesi della regione come Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Bahrein ed Egitto, dove le riforme scolastiche hanno rimosso contenuti d’odio, evidenzia. Nei testi delle scuole israeliane si predica la tolleranza e si fa esplicito riferimento alla Nakba (“catastrofe”), termine con cui i palestinesi indicano l’esodo forzato durante la guerra del ’48 che ha coinciso con la fondazione dello Stato di Israele.
L’Autorità Palestinese, pur avendo promesso di deradicalizzare il proprio curriculum, non si è ancora mossa in questo senso, continua Agassi. L’Unrwa, dal canto suo, continua a difendere l’adozione integrale del materiale sostenendo che sia “best practice” insegnare il programma della nazione ospitante (principio non formalizzato né dall’Onu, né da altri attori internazionali). In altri contesti, come in Libano o in Siria, l’approccio è quello di selezionare materiali ritenuti pedagogicamente e moralmente adeguati, spiega l'esperto; eppure, nonostante le richieste di riforma che si susseguono da anni, l’Unrwa prosegue con questo curriculum e produce anche materiali di supporto propri. Senza contare che alcuni membri dello staff sono stati accusati dalle autorità israeliane di essere state parte attiva degli eventi del sette ottobre.
Mentre la società israeliana resta sospesa tra la promessa di protezione e il dovere verso i concittadini in ostaggio, la guerra continua a esigere un prezzo sempre più alto. “Cosa fare con un’organizzazione terroristica che usa la propria popolazione come scudo, i propri ospedali come basi per i missili? Come agire senza danni collaterali? È su questo che contano: sanno che ogni volta che si colpiscono civili si toccano le nostre sensibilità. I civili sono usati contro di noi”. Il diplomatico israeliano incontrato al ministero degli Esteri osserva le reazioni occidentali di fronte alle notizie che emergono da Gaza ed esprime la sua amarezza per quella che percepisce come una fondamentale incomprensione della situazione. “Anche la nostra esistenza è in discussione”, rimarca. Riconoscendo che, specie fra i più giovani, è pressoché impossibile sviluppare una visione critica del conflitto se l’informazione è limitata a una sequela di video brevi su TikTok. (di Otto Lanzavecchia)