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Dove il tempo si è fermato il sette ottobre. Foto e voci da Nir Oz

Reportage tra le macerie di un kibbutz simbolo del peggior massacro in Israele dalla sua nascita. Le famiglie delle vittime lottano per superare il trauma e non lasciar spegnere il ricordo

Rita Lifshitz di fronte alla casa della famiglia Bibas, kibbutz Nir Oz, Israele (Otto Lanzavecchia/Adnkronos)
Rita Lifshitz di fronte alla casa della famiglia Bibas, kibbutz Nir Oz, Israele (Otto Lanzavecchia/Adnkronos)
16 aprile 2025 | 15.39
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Entrando a Nir Oz, un placido kibbutz a circa due chilometri dalla Striscia di Gaza, quello che più colpisce è il silenzio. Tra il verde mosso dalla brezza marina spiccano i colori delle bandiere piantate di fronte ai viottoli d'ingresso delle case disabitate, spesso sventrate. Quelle gialle indicano che l'inquilino è stato rapito; alcune hanno un adesivo nell’angolo, blu se è tornato a casa, rosso se è morto in cattività. Quelle nere, semplicemente, simboleggiano una vittima del massacro del sette ottobre 2023. (FOTOGALLERY)

La data è diventata uno spartiacque nella storia moderna di Israele. All'alba migliaia di miliziani del gruppo terroristico Hamas hanno dato inizio al massacro più grave mai avvenuto dalla fondazione dello Stato, sfondando il confine della Striscia di Gaza il giorno festivo di Simchat Torah e raggiungendo i centri abitati più vicini. Su circa 400 abitanti di Nir Oz, una delle ventidue comunità attaccate, ne sono stati rapiti o uccisi 117. Oltre 1200 morti in totale, di cui più di 800 civili, numero ancora più impressionante in un Paese che conta meno di 10 milioni di persone.

“Qui tutti conoscevamo tutti. Non c'era il rischio che qualcuno finisse affamato”, racconta Rita Lifshitz, nuora di Oded Lifshitz, giornalista, attivista e co-fondatore di Nir Oz. La prima casa che mostra ai visitatori invece era di Miri e Amitai Ben Zvi, con un osservatorio, unica parte rimasta intatta tra le macerie, da cui amavano guardare gli edifici ben visibili della Striscia di Gaza al tramonto e immaginarsi la strada verso un futuro condiviso. Una mentalità comune tra gli abitanti del kibbutz, per cui quella prossimità era una scelta pienamente consapevole e l'assistenza attiva ai palestinesi una pratica diffusa.

La stessa Rita, che accompagna i visitatori casa per casa annerita e racconta le storie di chi ci viveva, si rifiuta di sovrapporre gli aggressori agli abitanti di Gaza. “Qui è arrivato il terrore di Hamas, non i palestinesi”, sottolinea all’entrata, guidando un gruppo in cui era presente anche l'Adnkronos. Ma proprio le persone più orientate alla coesistenza pacifica sono state le prime vittime della brutalità dei terroristi. Amitai è stato ucciso nella sua casa, Miri rapita. Anche Oded, ottantatré anni, che da tempo combatteva per i diritti dei palestinesi e li aiutava a ricevere cure mediche in Israele, è stato portato a Gaza ed è morto durante la detenzione.

Tra le conseguenze della guerra c’è anche la pesantissima stretta israeliana sui pendolari che da Gaza e Cisgiordania entravano a lavorare nei territori israeliani (talvolta senza permesso nella zona di Gerusalemme, con il tacito assenso delle autorità). Da qualche anno era in atto un graduale aumento dei permessi e dei flussi, nella speranza che l'integrazione economica avvicinasse, nel tempo, le popolazioni. Per molti israeliani quella visione è diventata semplicemente impossibile dopo il massacro jihadista, che i miliziani di Hamas hanno volutamente amplificato con torture e stupri – spesso filmati in diretta e caricati sul web allo scopo di umiliare Israele.

Le cicatrici del massacro

I racconti dell’attacco variano, ma condividono alcuni tratti: la pioggia di missili presto la mattina, la sensazione che quella volta ci fosse qualcosa di diverso, la confusione sui gruppi WhatsApp locali, gli allarmi, l'esercito che non arrivava. A Nir Oz Ela Haimi aveva spostato tutti i mobili di fronte alla porta d'ingresso e si era barricata nella stanza sicura di casa sua (tutte le case recenti ne hanno una) con i suoi due figli e due coltelli da cucina. È stata fortunata: i terroristi non sono riusciti a forzare la porta. Non lo è stato suo marito Tal. “Era andato in perlustrazione dopo che alla radio sono girate voci di un'infiltrazione. È rimasto nei paraggi per circa due ore, poi abbiamo perso ogni contatto. Il segnale del suo cellulare è stato localizzato a Khan Younis, nella Striscia. Ci sono voluti quasi due mesi prima che l’esercito confermasse che Tal era stato ucciso e il suo corpo portato a Gaza”, racconta suo cugino Udi Goren.

Alcune famiglie sono morte asfissiate per via del fuoco appiccato dai miliziani di Hamas: il fumo è penetrato dalle fessure delle safe room, pensate per resistere ai detriti dei missili e non a un attacco terroristico. Altre ancora sono state sterminate dalle granate, dai colpi di kalashnikov, dagli incendi causati dando fuoco alle tubature del gas delle cucine per costringere gli inquilini a uscire allo scoperto – il motivo per cui così tante case a Nir Oz sono bruciate a partire dalla cucina. C'è chi è stato catturato e poi liberato grazie alla tregua di inizio 2025 tra Israele e Hamas, come Yarden Bibas; altri che sono usciti dalla Striscia nelle bare, come sua moglie Shiri e i loro figli, Ariel, quattro anni, e Kfir, nove mesi. Il padre ha scoperto della loro morte solo quando è stato liberato; al funerale li hanno pianti in migliaia.

A un anno e mezzo dal massacro, la miccia che ha fatto riesplodere la guerra in corso, l'impatto dell'attacco è ancora ben visibile tra gli israeliani. A pochi chilometri da Nir Oz si stanno moltiplicando le installazioni di volontari per ricordare i giovani uccisi (la gran parte sotto i trent'anni) durante il Nova Festival, un rave party di musica trance. Vicino al palco principale e alla foresta di foto commemorative è spuntata una distesa di papaveri di ceramica, gli stessi che si trovano sotto le lapidi delle loro coetanee uccise durante il turno di guardia in una base delle Forze di difesa israeliane (Idf) a Nahal Oz, non troppo distante.

Il fronte mediatico

Le bandiere gialle sventolano anche sui guardrail delle strade che portano verso il sito del festival, insieme ai poster con i volti dei 59 ostaggi ancora in mano a Hamas. Sono affissi dappertutto, dalle loro case nei kibbutz alle strade di Tel Aviv, dove organizzazioni della società civile lavorano per tenere alta la pressione sul governo affinché dia priorità alla liberazione degli ostaggi. Nel mentre offrono sostegno ai familiari delle vittime e fanno in modo che le loro storie raggiungano il mondo esterno; continuano a farlo a un anno e mezzo dall'attacco perché – è la percezione di innumerevoli israeliani – continua a mancare un vero supporto da parte delle democrazie occidentali, dove le notizie dei raid israeliani su Gaza, le sofferenze della popolazione e il bilancio sempre più impressionante dei morti (oltre 50.000 stando alle cifre che escono da Gaza) hanno messo in secondo piano la brutalità di Hamas e la questione degli ostaggi.

“Non solo ho vissuto il sette ottobre e tutto quello che è successo, ma devo anche sentire i telegiornali esteri celebrare gli stessi terroristi che hanno ucciso il mio ragazzo”. Rafaela Treistman, ventunenne brasiliana espatriata in Israele, è sopravvissuta al massacro del Nova Festival. Nello specifico, è una delle dieci persone uscite vive da un rifugio antimissile in cui se ne erano rifugiate quaranta. Cinque ore passate nascosta nel mucchio di corpi che i jihadisti hanno preso di mira con granate e fumogeni per farli uscire e trucidarli man mano. Tra loro c'era anche il suo fidanzato, Ranani Glazer, che la stava accompagnando al suo primo festival.

“Hamas è molto forte sul piano mediatico e le persone scelgono di stare dalla parte dei terroristi invece che da quella dell’unico Stato democratico del Medio Oriente. Ed è come se ogni speranza fosse andata persa dal sette ottobre in poi. Non so come spiegarvelo. Cioè, io ho vissuto un inferno, e le persone sono dalla parte di Hamas”, lamenta Rafaela. “C'è chi mi ha detto che me lo merito perché sono sionista, o qualcosa del genere. Ma non è questo il punto. Non si tratta di politica. Non si tratta di ebraismo. E le persone non lo capiscono”. Soprattutto è impossibile ascoltare le storie delle persone massacrate al festival e nei kibbutz, rimarca; “ed è per questo che per me è così importante parlarne, per far capire cosa è successo qui”.

Per gli israeliani è stupefacente vedere l'ampio supporto al mito della “resistenza” che offre Hamas e ha preso piede in Occidente, anche a fronte di storie del genere. Ma sono ben consapevoli dell'abilità degli jihadisti nel tessere il loro racconto nell'intreccio più ampio della questione israelo-palestinese. Anche se (come evidenziato dalle proteste anti-Hamas in corso a Gaza) è evidente che stiano sacrificando i palestinesi sull'altare della distruzione dello Stato di Israele. Lo hanno fatto per gli ultimi quindici anni, puntualizza il giornalista e commentatore del Times of Israel, Haviv Rettig Gur, dirottando le risorse umanitarie e finanziarie in entrata e usandole per consolidare la propria forza militare al posto di sviluppare l'economia locale.

“Dove sono i palazzi nuovi? Dove sono i campi coltivati? L’unica cosa che hanno costruito da quando hanno preso il potere (nel 2007, ndr) è una città sotterranea. 500 chilometri di tunnel in 25 chilometri quadrati di territorio, ventilati, elettrificati, in grado di resistere agli attacchi aerei, ma vietatissimi ai civili”. Così, mentre i miliziani possono sostenere economicamente le loro famiglie e sfuggire alle bombe, la popolazione della Striscia viene depauperata e usata come uno scudo di carne. Scientemente, scommettendo sul fatto che a ogni raid israeliano sarebbe corrisposto un aumento del sostegno di chi osserva distrattamente dall'estero. Non sorprende che di fronte a chi in Occidente giustifica le azioni di Hamas la sorpresa degli israeliani si trasformi in esasperazione.

Gli sguardi verso il futuro

“Siamo costretti a combattere per salvare delle vite, e dobbiamo farlo anche contro la macchina della propaganda di Hamas, che non potrebbe agire senza l’assistenza diretta o indiretta di una parte dei media internazionali. Questa vicenda entrerà nei libri di storia e verrà studiata nei corsi di comunicazione: dobbiamo fare in modo che diventi una lezione positiva, non una vergogna”. Efrat Machikawa è nipote di Gadi Moses, che ha compiuto ottant'anni durante la prigionia ed è miracolosamente tornato da Gaza. Crede che Israele abbia un ruolo ben preciso nel Medio Oriente: “diventare parte attiva nella costruzione di una regione con meno spargimenti di sangue. Ma perché questo accada nel tempo di questa generazione, dobbiamo prima riportare indietro tutti gli ostaggi”.

Ci sono altri sprazzi di speranza che attraversano queste storie. Rafaela soffre di sindrome post-traumatica e non è più andata a ballare dal sette ottobre, ma ha trovato una sorta di serenità nel condividere la sua esperienza. A Nir Oz, dopo il periodo di tregua e il rilascio di alcuni ostaggi, sono aumentate le bandiere con l'adesivo blu. Rita piange i suoi compaesani scomparsi ma è sicura che il kibbutz verrà ricostruito e tornerà a essere il posto accogliente e tollerante che era. Una visione che in piccolo replica una speranza condivisa da molti israeliani prima del sette ottobre.

I semi di quel futuro non sono scomparsi, ma congelati dalla guerra in corso. Le famiglie degli ostaggi sono le prime a sostenere la necessità di aderire agli accordi con Hamas (il governo, che ha ripreso la campagna militare, è di altro avviso) e assicurarsi il ritorno dei 59 ostaggi, di cui almeno 24 sono ritenuti ancora vivi, sopra ogni cosa. Con loro devono tornare in patria anche i morti in mano agli jihadisti, affinché le loro possano chiudere il capitolo del sette ottobre e dedicarsi alla ricostruzione. Quella delle loro vite, delle loro comunità e di un'idea di Israele – Paese fondato sul “mai più” dopo l'Olocausto – in cui una strage del genere non si possa ripetere.

La conclusione è di Udi Goren: “I nostri nonni, da parte materna e paterna, furono tra i fondatori di Nir Oz. Non hanno mai considerato chi era ‘oltre il recinto’ come un nemico. Continuano ancora oggi a immaginare un futuro diverso. Anche noi vogliamo tornare al kibbutz, ma per trovare un minimo di pace dobbiamo riavere il corpo di mio cugino Tal, lì dove è nato e cresciuto. I suoi figli meritano almeno una tomba”. (di Otto Lanzavecchia)

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